La Nazionale-metafora per vincere la lamentazione che ci viene da lontano
di Carmelo Briguglio | 13 Luglio 2021Trent’anni fa – mi scuso di questo amarcord – scrissi un articolo da titolo “Il pallone come metafora”, in cui facevo un parallelo tra la promozione del Foggia Calcio in serie A e la vita della città, mite e quieta, che si trasformava in un domenicale pullulare di bandiere e sciami umani per le strade; era mossa dallo straordinario collettivo guidato da Mister Zeman, col suo “Tridente delle meraviglie” Signori-Baiano-Rambaudi, così scoperti dalla grande Italia sportiva.
Il generoso e bonario patron era Pasquale Casillo, industriale del grano, che era anche l’editore del mio giornale, il glorioso “Roma”, diretto allora da Mimmo Mennitti, vice Adolfo Urso: fui destinato proprio a Foggia come redattore praticante, dopo alcuni mesi di iniziazione napoletana. Il mio caporedattore pugliese – il buon Antonio Cascella, che veniva dal giornalismo sportivo – me lo cestinò. Dovevo “farmi” – mi disse con severità – tre belle dense pagine di cronache “regionali”: altro che metafore e paralipomeni che immaginavo. Aveva ragione lui; così mi feci le ossa e imparai il “mestiere” dal basso: disegnare menabò, fare titoli, correggere i pezzi altrui, impaginare e “combattere” con i primi nuovissimi computer e programmi Apple della nostra piccola, ma super- tecnologica (per allora) redazione del palazzo Sottozero, dove convivevamo società calcistica e redazione giornalistica. Mi è tornato alla mente in questi giorni quel pezzo buttato tanti anni fa, non essendomi perso – io algido verso il campionato nostrano – una sola partita con in campo gli Azzurri, fino alla loro e nostra vittoria finale come campioni d’Europa. Il che – mi sono sorpreso di me stesso – coinvolto da figlio e nipoti, mi ha spinto a reimpugnare la bandiera dell’Italia, dai tempi in cui ragazzo partecipavo a quei riti magici comunitari che si chiamavano “comizi”, un po’ differenti dalle loro odierne parodie. Oggi mi prendo una rivincita minimal rivivendo lo spirito di quel vecchio articolo che non vide mai la luce. Certo, in questi giorni, tutto o quasi è stato detto e scritto, anche del profilo simbolico, su questa nostra vittoria nazionale. Ma è vera quella mia durevole intuizione; quanto, come Paese politico e reale, anche in Sicilia, spesso ci manca: coesione, spirito di corpo, visione di squadra, fiducia in noi stessi e in chi ci guida. E, soprattutto, incapacità di liberarci della lamentazione e di tutte le forme del “pianto greco” che è iscritto nel profondo del nostro carattere di popolo del Sud e di noi eredi dei Greci d’Occidente, discendenza tanto cara al mio amico Fabio Granata. Fu Sebastiano Tusa, col suo ironico dire di Maestro, un giorno a ricordarmi che in realtà, il nostro “lamèntati pi stari bonu”, non era lascito greco ed ebraico: il Libro delle Lamentazioni, c’è sia nella Bibbia ebraica che in quella cristiana, ma quelli che il mondo greco chiamava thrénoi, vengono da più lontano, da precedenti civiltà mediterranee; le radici si perdono nei tempi dei tempi. Soprattutto noi, popolo siculo, li abbiamo stratificati e trattenuti per millenni nel nostro modo di essere e di vivere fino alla nostra quotidiana contemporaneità: sono un nostro specifico archetipo collettivo, se vogliamo dare ragione ai junghiani. Non ne abbiamo però visto traccia nell’amalgama reattivo e tenace dei nostri Azzurri: non si sono mai pianti addosso e hanno sempre reagito a ogni difficoltà che non sono certo mancate. Ecco il “tropo” che ci hanno donato: un modello di comportamento che speriamo possa permeare il nostro carattere di popolo; uno stile che diventa perfetto perché accompagnato da un signorile fair-play cui si contrappone quello orribilmente “tascio” o “trash” – fate voi – per altro non dire, degli inglesi sconfitti. Ce la farà il nostro pubblico agire di elettori ed eletti, ad attingere qualche scintilla dai nostri Nazionali e, pian piano, farlo proprio ? Sarebbe fare di questa vittoria sportiva, una vittoria più grande: quella con noi stessi; con le nostre fragilità che vengono da lontano; e, però, in nome del nostro futuro, dobbiamo essere capaci di battere e oltrepassare.
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