Buttitta: la Sicilia è periferia, Musumeci ci ha ridato dignità, ma faccia di più e su Orlando, cultura, intellettuali, dico…
di Redazione | 17 Maggio 2021D. Professore Ignazio Buttitta, come vede oggi la Sicilia dal suo grandangolo?
R. A rischio di tirarmi addosso gli strali di coloro che quotidianamente magnificano le molteplici bellezze e i peculiari splendori, che certo ci sono, della nostra Isola e di quanti sommariamente sbeffeggiano chi osa levar critiche, rilevando incoerenze e storture, come “nemici ‘ra cuntintizza”, ripeterò, con preciso riferimento alle attuali condizioni socio-economiche e culturali, ciò che ho in varie sedi osservato: la Sicilia è la periferia (dell’Italia), della periferia (dell’Europa), della periferia (del sistema-mondo). Chi, come me, da un lato, in ragione del lavoro che svolge, osserva e vive intimamente la quotidianità, e percorre l’Isola conoscendo e dialogando con donne e uomini di ogni categoria e estrazione sociale, dall’altro legge le pagine di politica internazionale di qualche quotidiano o rivista italiani ed europei, non credo possa facilmente invalidare questa considerazione. Le narrazioni non fanno la realtà, anzi la rendono talora più tragica e indigesta a chi la vive e rendono grotteschi agli occhi dei più accorti (i loro cantastorie): penso alla felice convivenza multiculturale proclamata da Orlando o alla centralità euro-afro-asiatica della Sicilia tanto cara a Musumeci. Esattamente, concretamente, cosa hanno fatto perché queste loro narrazioni potessero, almeno in parte, reificarsi?
Si lasci anche a me narrare utilizzando le parole di Italo Calvino. Rispondendo ai dubbi di Kublai Kan, Marco Polo afferma: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Per non soffrire e non accettare l’inferno, bisogna rischiare. Si devono ritrovare il senso dello stare insieme, del fare comunità e il valore del bene autenticamente comune, bisogna assumersi responsabilità che travalichino ogni interesse particolare e acquisire la consapevolezza che solo una radicale trasformazione potrà garantire il protrarsi nel tempo di una storia che rischia di volgere al tramonto. La nostra società mostra evidenti i segni dell’implosione, di una disgregazione infeconda, si rivela, ogni giorno di più, incapace di produrre proposte capaci di arginare i dilaganti processi entropici che la attraversano, incapace di disegnare nuovi orizzonti di senso. Sono l’osservazione e la considerazione dell’intera realtà, dell’umanità dimenticata, della storia zittita dal clamore dell’opulenza e dell’orgia della post-modernità, delle rovine oscurate dal fulgore dei riconoscimenti Unesco, possono offrirci strumenti di riscatto, suggerirci perseguibili utopie di giustizia sociale e di benessere condiviso. Coltivare illusioni è certo rischioso. Eppure non v’è alternativa: o si accetta con rassegnazione lo stato delle cose, ripiegandosi su se stessi e adoperandosi essenzialmente (se non esclusivamente) a vantaggio della propria sopravvivenza individuale, o si interviene, collettivamente, secondo modalità commisurata all’entità della forza e degli strumenti dell’avversario. In altre parole, rispetto alle attuali condizioni politiche e socio-economiche, o la poltrona o la lotta che, nel caso di un Presidente della regione, sia pur nei limiti delle sue reali possibilità e del suo mandato, significa adottare risoluzioni radicali e rivoluzionarie, senza preoccuparsi del futuro politico suo e dei suoi a vario titolo.
D. Dice? I buoni risultati nella lotta alla pandemia, la mafia messa alla porta, l’utilizzo di tutti i soldi che manda Bruxelles, cantieri ovunque in poco più di tre anni, a molti non sembra poco. Non le pare di essere troppo severo?
R. Può darsi. Certo – gli va riconosciuto – il Presidente Musumeci ha restituito alla Sicilia la dignità e la credibilità fortemente incrinatesi nel corso della precedente esperienza di governo ed è riuscito, in un tempo difficilissimo, quello della pandemia, a evitare l’implosione della società isolana: non è poco, ma spesso si ha l’impressione che, per ottenere risultati, si affidi più al suo stile istituzionale, indubbiamente apprezzabile, che alle azioni di governo. Per il resto, io posso parlare di ciò che vivo e conosco quotidianamente. Non mi sembra che sul piano delle politiche educative e culturali si siano registrate sostanziali innovazioni. Direi anzi che abbiamo assistito, complessivamente, sul piano delle politiche relative ai beni culturali, a degli arretramenti, segnatamente in chiave liberista. Con Sebastiano Tusa sembrava essersi aperta una felice stagione di riforme concrete e consapevoli, fondate su una puntuale conoscenza della materia, delle dinamiche interne, “di uomini e cose”. Con la sua drammatica scomparsa, i suoi progetti non mi pare stiano avendo granché seguito, ma manca un anno e mezzo alla fine della legislatura. Vedremo, ma resto scettico: pesano troppo incompetenze e diversità di visione.
D. Cosa dovrebbe fare secondo lei il Governatore, in questo fine legislatura?
R. Mi limito a rispondere per l’ambito di mia più stretta competenza. Ecco: riportare il Dipartimento della Pubblica Istruzione ai Beni Culturali; ricondurre la gestione delle attività musicali e teatrali ai Beni Culturali sottraendole all’Assessorato al Turismo che ne ha snaturato, da molti anni, la logica istitutiva; ritornare ad avvalersi per la valutazione delle attività promosse dall’Assessorato ai Beni Culturali di esperti esterni all’Amministrazione, ricostruendo altresì un fecondo dialogo con l’Università; rinnovare/rianimare l’Amministrazione (tutta) con nuovo personale qualificato selezionato per concorso; abolire il “ruolo unico” e valorizzare le specifiche competenze extra-amministrative di dirigenti e funzionari; potenziare le Soprintendenze; destinare maggiori risorse economiche a musei e centri regionali; favorire in ogni modo l’accrescimento della conoscenza a della consapevolezza della cittadinanza riguardo il proprio patrimonio storico-culturale; ad esempio: rendere gratuito l’accesso ai luoghi della cultura (gallerie, musei, etc.), ai parchi e alle riserve regionali a tutti i cittadini residenti (senza distinzioni di nazionalità); procedere a una mappatura sistematica dei beni culturali e ambientali isolani; promuovere in ogni modo e in ogni ambito la digitalizzazione; costituire un comitato di indirizzo per la programmazione delle istituzioni finanziate dalla regione; rinnovare, ri-qualificandolo scientificamente e rendendolo operativo, il Consiglio Regionale dei Beni culturali; promuovere la costituzione di un Ateneo del Mediterraneo, dotato di specifici percorsi formativi, rivolto alla formazione delle classi dirigenti dei paesi del Nord-Africa, dell’area slavo-balcanica e del Medio Oriente; promuovere norme intese a valorizzare gli esiti della ricerca scientifica e della produzione culturale isolana; promuovere norme intese ad accrescere i rapporti scientifico-culturali tra Sicilia e paesi europei ed extraeuropei …. mi fermo, ma assai altro vorrei aggiungere…. ma un’ultima cosa, forse non pertinente: fare quello che ogni Presidente della Regione dovrebbe fare e non ha fatto negli ultimi decenni. Forse, l’ultimo a farlo, sia pur parzialmente e a tratti, è stato Rino Nicolosi: chiamare al proprio fianco, senza considerarne le appartenenze politiche, quali consiglieri, consulenti, collaboratori, gli uomini migliori di Sicilia: le assicuro – e non parlo certo di me, personalmente non sono interessato – sono tanti. Questo, Musumeci può farlo ancora, se vuole.
D. La stagione di Leoluca Orlando volge al termine. Secondo lei, perché non ha un erede?
R. Palermo è, al pari di altre grandi città meiterranee, un’accostamento di preziose e miserabili tessere musive senza disegno, una rabberciata giustapposizione di storie e culture, una pseudo-comunità incapace di liberarsi dalle secolari incrostazioni (cui si aggiungono oggi più che mai potenti spinte endogene) che le hanno, appunto, impedito di divenire una comunità coerente e solidale. Ma sono la frammentazione e la molteplicità che la rendono magneticamente affascinante. Non credo in un fato non sovvertibile o in strutturali irredimibilità antropologiche. Si può fare e tanto. Orlando, soprattutto in questo ultimo mandato poco ha fatto. E in proposito, per rispondere alla seconda parte della domanda: gli eredi, in politica, si scelgono, si educano, si coltivano, si sostengono, lasciandoli infine, senza riserve e condizionamenti, liberi di agire ed affermarsi autonomamente. Così dovrebbe essere ma assai raramente accade. Certamente così non è accaduto nel caso di Leoluca Orlando che, al di là di ogni merito (o demerito) che può essergli ascritto, a mio avviso non ha mai voluto concretamente lavorare a disegnare una successione. Come molti uomini che troppo a lungo hanno esercitato il potere, temo che Orlando ritenga di essere unico e insostituibile nel suo ruolo di Sindaco e quasi auspichi che la storia a venire lo confermi: “après moi le déluge!”; pensa compiacendosi del rimpianto dei suoi tanti cortigiani. Non sa o finge di non sapere che, al contrario, per lo più, si affretteranno a rinnegarlo e a fare scempio del suo lascito ideale e materiale.
D. La cultura è il suo mondo: secondo lei, perché gli intellettuali disertano il discorso pubblico in Sicilia?
R. Sono diverse le ragioni della diserzione. Non può dirsi, peraltro, che non si levino, seppur limitate e contenute entro spazi di non ampia visibilità, voci critiche. La risposta a questa domanda necessita pertanto di essere più articolata. Per necessità di sintesi e ben consapevole dei limiti di ogni discretizzazione categoriale dividerò gli intellettuali in tre insiemi. Il primo è costituito dagli intellettuali che, direi essenzialmente per pavidità e per opportunismo, sono più inclini a coltivare i loro personali interessi che a rischiare di perdere ruoli, spazi, prebende, visibilità a vantaggio del bene comune. Questa attitudine li induce a tacere, anche dinanzi alle scelte più deprecabili dei governi (cittadini, regionali, nazionali) di turno o, peggio, ad allinearsi al discorso politico dominante. E’ questa una ben documenta tradizione italiana: basti leggere I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948 di Mirella Serri e ricordare l’esiguo numero di docenti universitari che, nel 1931, si rifiutarono di giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista» (Regio decreto n. 1227, art. 18). V’è poi un’altra categoria di intellettuali, fors’anche più meschina, rappresentata da coloro che propongono raffinate analisi e articolate reprimende, più spesso su tematiche generiche e, per l’uomo comune, distanti dai concreti problemi del quotidiano, che pure non disdegnano di sedere agli stessi tavoli e di ricevere attenzioni da parte di coloro che incarnano e sostengono (talora anche questi per opportunismo!) parti politiche e posizioni ideologiche avverse. Basti ripercorrere la polemica mediatica seguita alla nomina di un rappresentante della Lega ad Assessore regionale ai Beni culturali e all’Identità siciliana e poi guardare a chi oggi lo accompagna, lo invita, lo plaude, lo blandisce pubblicamente. Infine, un’ultima, più ristretta schiera, quella cui ritengo di appartenere: quella degli intellettuali che si espongono senza riserve, anche a svantaggio dei propri interessi individuali, che esercitano una critica propositiva e mai faziosa e che coniugano con l’esercizio della critica l’impegno sociale e politico sul campo. Mi si consenta anche qui un fugace riferimento alla storia italiana ricordando Benedetto Croce, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia. Ecco, questa categoria, oggi e in Sicilia, non diserta il discorso pubblico, se intendiamo così quello rappresentato a livello mediatico; è piuttosto ostracizzata, raramente coinvolta e, quando lo è, accortamente censurata. Vi ringrazio, pertanto, di avermi dato la possibilità di esprimermi liberamente.
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